L’avvocato Daniela Tinazzi di Rovigo e il Dottor Carlo Monti, commercialista in Padova, arrivarono sulla Croisette alle quindici circa di quel tanto sospirato ponte del primo novembre, giorno di Ognissanti. Cannes e la Costa Azzurra dovevano rappresentare lo scenario di quei giorni di vacanza rubati al lavoro, ai tanti appuntamenti e alla famiglia.
Parking, si leggeva sul grande schermo nella facciata liberty di un palazzo sul lungomare e Il dottor Monti, dopo sei ore alla guida, azionò la freccia, svoltò a destra, incontrò la sbarra bianca e rossa orizzontale. Abbassò il finestrino, pigiò il pulsante verde e la tessera elettronica venne espulsa. La sbarra scattò sull’attenti e la macchina iniziò la discesa verso il basso. Le rampe a chiocciola guidavano l’auto verso la postazione prestabilita. Sei piani sotto. Posto auto seizerosei. All’interno dell’abitacolo silenzio tra i due. Le gomme stridevano ad ogni curva. Meno uno, meno due, meno tre…meno sei. Seicento e sei. Le portiere si aprirono nell’immenso parcheggio silenzioso, dove ogni tanto si percepiva un rumore inaspettato e ovattato. Salirono sull’ascensore e via verso la vita. Li attendevano momenti di passione, di amore, di libertà.
Si erano conosciuti due mesi prima. Lui con un matrimonio alle spalle, lei signorina, ancora alla ricerca spasmodica alla soglia dei quaranta del mitico principe azzurro. Di questa figura immaginaria, lui non aveva nulla. All’appello mancavano la statura, la capigliatura e la prestanza. Però quell’uomo in un rigido gessato blu, incontrato in tribunale, si era poi rivelato gentile e premuroso. Lo spaghetto alle vongole, preparato in velocità, dopo l’invito a casa di lui, era stato l’innesco di quella storia d’amore. Lei, ormai invischiata nelle cause di divorzio, con poco tempo da dedicare alla vita privata e con il sogno di matrimonio tradizionale, si concesse a lui, piena di speranza. Due giorni al Grand Hotel di Cannes. Rien ne va plus. Aveva puntato su Carlo e ora il banco pagava la vincita. Erano presissimi. La vacanzina era finita. Tutto era filato liscio. La storia sarebbe continuata. Lei era raggiante. Lui sereno e appagato. Pronti al rientro. Si recarono al parcheggio.
L’ascensore li attendeva a braccia spalancate. Ridevano. Si baciavano. Si accarezzavano. Il pulsante meno sei si illuminò. Iniziò la discesa. Le porte si aprirono. Erano arrivati. Il dottor Monti disse: “Recupera la macchina, eccoti le chiavi. Ci siamo dimenticati di pagare alla cassa-automatica. Dammi il biglietto del parcheggio.” L’avvocato Tinazzi prese le chiavi della macchina, consegnò il biglietto al commercialista, lo baciò e si incamminò verso il posto auto seisezosei. La Tuareg 2600 turbo diesel 4×4 argento metallizzato era lì ad attenderla. L’avvocato disinserì l’antifurto e le quattro frecce lampeggianti le diedero il benvenuto. Aprì lo sportello. Salì. Inserì la chiave. Mise in moto. Retromarcia inserita. Manovra. Prima inserita, un poco di gas e via verso il grande segnale verde che indicava l’uscita.
“Quel parcheggio sotterraneo la inquietava, quella luce strana, quegli strani rumori…” penso Daniela. Ecco l’uscita. Il percorso elicoidale a rampe, con l’asfalto in rilievo che morsicava i pneumatici. Le gomme urlavano Meno cinque. Meno quattro. Meno tre. Al piano meno uno realizzò che era partita senza biglietto in una salita senza ritorno. “Devo stare calma. Sicuramente Carlo mi aspetta alla sbarra. Deve essere così.”, si disse la Tinazzi. “Mamma mia dimmi che lui è li. Lui deve essere li.” Il cuore dell’avvocato batteva forte e sentiva le guance prendere fuoco. Cercò di convincersi che era un’ora di traffico scarso e nessuno avrebbe avuto problemi. “Dai Carlo, dai Carlo.“ Ripeteva dentro di sè. L’urlo di liberazione dei pneumatici annunciava l’ultima stretta salita con la sbarra bianca e rossa all’altezza dei fari anteriori. “ Dove sei?” gridò la divorzista all’interno dell’abitacolo. Panico. “Devo stare calma. Adesso arriva.”.
Il silenzio era assordante. Iniziò a sudare. Prima le ascelle poi la schiena, faceva fatica a respirare. Arrivò la prima auto alle spalle e del suo innamorato nessun segnale. Il cruscotto segnalava le sediciedodici. Indietro non si poteva andare e neanche avanti. Un’altra auto, arrivò in cima alla rampa. La macchina alle sue spalle lampeggiò per svariati secondi. L’avvocato Tinazzi spense il motore, mise la sicura alla macchina e come ultimo gesto sensato chiuse gli occhi. Erano le sedicietredici. Alcune strombettate delle auto in coda sulla salita chiedevano strada. Alle sediciequindici il concerto di trombe era assordante, scoordinato e cacofonico. Con i pugni stretti dentro l’abitacolo, Cristina si appellava a tutti gli dei dell’Olimpo per propiziare l’apparizione del suo principe azzurro.
Sentiva la voce stridula della signora che era alla guida dell’auto bloccata dietro la sua che inveiva in francese. Alle sediciesedici iniziarono i colpi sui vetri. Daniela apri gli occhi e vide a destra e a sinistra degli sconosciuti che prendevano a pugni i finestrini. Gridavano: ”Ahhh les italiens! e Italiani maccaroni!” Si aggrappò al volante. La testa le scoppiava. Ore sediciediciassette. la donna di legge urlò: “Dai, Ci Emme arrivaaaaaaaaaaaa!” Nessuno arrivò e l’urlo si spense dentro l’abitacolo. Gas di scarico, clacson, fila interminabile. La fine del topo.
Ore sediciediciotto. Urli, pugni e calci sulla carrozzeria. Due ragazzi inglesi con un coltello a serramanico sfregiarono la lamiera al grido “Italia fuck off!”. Ore sediciediciannove. La situazione era degenerata con il blocco totale del parcheggio. Il dottor Monti, in quei minuti, davanti alla cassa automatica si era reso conto della assoluta mancanza di denaro. “Accipicchia, devo tornare a prendere le monetine.” Riprese l’ascensore e ritornò all’inferno. Al sesto girone della Tuareg color argento metallizzato non vi era traccia. Non riusciva a capire. Si guardò attorno. Eppure era andata bene. Non poteva essere fuggita. Si erano piaciuti e innamorati. Ma dove era finita? Ore sedicieventi. Otto minuti interminabili. Urla, una ressa da stadio attorno alla macchina. L’automobile targata Padova, immobile, era il tappo di quell’immenso catino sotterraneo.
Il tributarista non sapeva dove andare a cercare la macchina e la sua compagna. Ad un tratto la fila si formò anche al girone sei. Il suo pensiero laterale produsse un’ipotesi pazzesca provocandogli la stessa sensazione di quando due anni prima dodici finanzieri e sette ispettori dell’ufficio del lavoro irruppero nel suo studio di Padova e Iniziò a correre con il cuore in subbuglio e il cervello congelato. Le rampe erano piene di macchine, un imbuto di gas irrespirabile, di imprecazioni e di clacson. La corsa terminò alle ore sedicieventicinque, quando arrivò dietro all’auto intestata al suo studio.
“Danielaaaaaaaaaaaaaaaa!” Si fece largo tra la folla, con gli automobilisti che cercavano di calmarlo confondendolo con un automobilista inferocito bloccato ai piani inferiori, insomma uno di loro. Una nausea ignobile che faceva presagire fiotti incontrollati lo fece arrivare con difficoltà allo sportello. Ore sedicieventisette. “Tu sei una pazzaaaaaaaaaaaaaaaaaaa! Cosa hai fattooooooooooooooo!!!”, urlò il dottor Monti Carlo, commercialista in Padova. Quando l’avvocato Tinazzi sentì l’urlo conosciuto spalancò gli occhi. Aprì lo sportello e fuggì in ginocchio sotto la sbarra. Raggiunse di corsa la salita verso la Croisette e sparì.
L’esperto in fusioni societarie, agitando il biglietto, da gentiluomo quale era, cominciò a chiedere scusa a tutti. I mormorii presero il posto delle invettive e gli automobilisti cominciarono a ritornare verso le macchine. Quando confessò che il biglietto era inservibile perché la disgraziata complice di quella vacanza era fuggita con il malloppo, la folla rimontò furiosa. Un tale di Parigi lo prese per il collo e cominciò a schiaffeggiarlo e qualcuno urlò in francese: ”Impicchiamolo alla sbarra!”.
Un gruppo di suore ferme al meno quattro propose una trattativa diretta per conoscere la contropartita per la liberazione. Alle ore sedicietretadue prevalse la pietà e si giunse ad un accordo organizzando una colletta che fruttò settantadue euro e venticinque centesimi. Il signor Jean Jacques Loison, cancelliere al tribunale di Nizza, imprigionato in dodicesima fila, fu incaricato del pagamento del biglietto alla cassa automatica. Alle ore 16.40 consegnò il titolo quietanzato, utilizzabile per l’uscita, al legittimo proprietario.
Alle ore sediciequarantuno, dopo avere inserito il biglietto nell’apposita fessura, il dottor Conti chiuse il bilancio, diede gas e partì, nello stesso momento in cui la sbarra bianca e rossa scattò sull’attenti, rendendogli l’onore delle armi. Si chiese cosa aveva fatto per meritarsi tutto quello. La Tuareg emerse sulla Croisette.
Fuori dall’inferno. Luci, palme e grandi alberghi. Stava facendo buio, dal mare in burrasca cominciava ad intravedersi la luna. All’altezza del bivio con la strada statale, in direzione del confine con l’Italia, vide l’avvocato Daniela Tinazzi disperata camminare scalza sul ciglio della strada. Inchiodò e urlò alla luna. Domani sarebbe stato il giorno dei morti. Viventi.
(I nomi, le situazioni e i luoghi sono puramente casuali e frutto di fantasia.)